Più luci che ombre nell’opera “Lazarus”, il lascito di Bowie

Inafferrabile, magmatico, unico: quanti modi esistono per definire David Bowie?
Un numero imprecisato. Il suo lascito a sette anni dalla scomparsa è davvero importante: una messe di dischi, dalla varietà sorprendente, e un’opera-rock, “Lazarus”, scritta poco prima di morire con il drammaturgo irlandese Enda Walsh.
La versione italiana è in scena in questi giorni nel teatro Mercadante, che ne ospiterà le repliche fino a domenica 14 maggio.
Il suo testamento creativo è stato tradotto e portato sul palco da Valter Malosti che si è affidato a Manuel Agnelli, protagonista del lavoro (qui nelle foto di scena di Fabio Lovino).
Lazarus racconta la storia del migrante interstellare Thomas Jerome Newton, costretto a rimanere sulla Terra e disperatamente proteso a tornare nello spazio. Ispirato a The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla terra) di Walter Tevis, il testo raccoglie alcuni dei temi più importanti della carriera di Bowie: il rapporto con il tempo, con lo spazio, con l’infinito, la diversità come categoria umana.
È un musical, ma è troppo drammatico per essere catalogato alla voce
‘spettacolo leggero’; paga il suo debito nei confronti del teatro-canzone di
Bertold Brecht, cita progressivamente l’Inghilterra pre-Beatles di Colin MacInnes (“Absolute Beginners”) e quella legata alla cultura pop di Anthony Burgess e Stanley Kubrick (“Arancia meccanica”): è, insomma, una macchina da spettacolo complessa, materiale sensibile con il quale confrontarsi.
Nell’affrontare un’opera in cui i confronti sono impietosi, Malosti ha allestito un set abitato da video, schermi, un palco rotante, una poltrona, un angolo per una tastiera. La sfida registica, le luci, le coreografie, i tempi scenici reggono l’impatto con il mito-Bowie con qualche caduta (qualche passaggio più figlio della cultura di “Grease” e della Broadway degli anni d’oro che del mondo dell’artista inglese). Il punto debole dell’intera impalcatura è la resa delle 18 canzoni che compongono “Lazarus”. Ad Agnelli è toccato il compito più severo, trasformarsi in un alter ego di Bowie e in un attore, lui che attore non è. È un carico notevole che il leader degli Afterhours si assume, tra alti e bassi, performance molto convincenti e altre meno, forte di una presenza scenica adeguata all’impresa.
Vince la scommessa a metà, cosa che non accade né nel riarrangiamento dei brani, né nelle interpretazioni affidate a Casadilego e agli altri interpreti. Se è vero che le migliori cover sono quelle che tradiscono l’originale e appaiono in una versione ‘altra’ (vedi la “Purple Haze” realizzata dal Kronos Quartet), qui si cancella il pathos che arricchisce il canzoniere di Bowie. La parte strumentale segue un itinerario in parte legato ai suoni di “Blackstar”, ma non riesce mai a superare lo steccato del compito ben fatto. Casadilego, nei panni della Ragazza e di Marley, ha una voce interessante, ma non è questo il suo habitat. Le sue versioni di “This is Not America” e “Life on Mars?” ne sono la prova evidente.
Newton è prigioniero della sua memoria, isolato dal mondo, recluso nella sua casa, abitata più da fantasmi che da figure reali, avvinghiato alla propria depressione che placa bevendo gin a profusione. Un testamento che mette sul piatto tecnologia, rapporto con i media e con l’uomo, memoria e rimpianto, senza vincitori. Opera clou della stagione del teatro Mercadante (con la versione di “Ferito a Morte” di Raffaele La Capria), Lazarus non tradisce le sue promesse, funge da ponte tra un pubblico irrimediabilmente adulto e un altro più giovane, curioso di conoscere il mondo di Bowie e argomenti che spesso il teatro non affronta, se non in modo più tradizionale. Riassunto di una stagione dei nostri tempi, Lazarus si candida a diventare una testimonianza preziosa di ‘come eravamo’ e come siamo diventati ed è facile predirgli ulteriori fortune.
Alfredo d’Agnese

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