L’addio di Enzo Moscato poeta del palcoscenico

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Come immaginiamo l’addio di un poeta? Assomiglia al vuoto che ha lasciato Enzo Moscato, scomparso a 75 anni. Autore e drammaturgo, interprete, saggista, attore, Moscato è stato tra le voci più influenti del teatro italiano contemporaneo. La sua voce dal cuore dei Quartieri Spagnoli di Napoli ha saputo farsi universale e rappresentare un mondo popolare, abitato da esseri umani emarginati e marginali, ‘caratteri’ di una città e di un mondo che stanno scomparendo.

Figlio del teatro di Antonin Artaud e di Jean Genet, narratore delle miserie e delle sventure degli ultimi, attento osservatore del lavoro di Pier Paolo Pasolini, Moscato è stato negli anni Ottanta protagonista di una rivoluzione autoriale in compagnia di Antonio Neiwiller e Annibale Ruccello. I capofila della nuova drammaturgia partenopea hanno messo alle spalle la tradizione di Scarpetta e Petito, posto in discussione la lezione di Eduardo De Filippo dando il via a un rinnovamento che ha fatto scuola.

“Rasoi”, “Compleanno”, “Ritornanti”, “Modo Minore”, “Raccogliere & Bruciare”, “Ronda degli ammoniti”, “Festa al celeste e nubile santuario”, “Occhi Gettati”, “Partitura”, “Embargos”, “Toledo Suite”: la lista delle sue opere è lunga, contiene testi che hanno lasciato un segno importante e che hanno ispirato la drammaturgia nazionale dagli anni Novanta in poi.

Regista, attore per il “Rasoi” diretto da Mario Martone e interpretato anche da Toni Servillo, cantante in una serie di preziosi dischi con la direzione musicale di Pasquale Scialò, Enzo Moscato ha aperto le porte di un mondo precluso alla borghesia della città-bene, ha dato voce a cittadini che la sorte aveva relegato a un mondo di serie B, ha elaborato un linguaggio originale e attento ai cambiamenti.

Figlio del ventre della città, diceva: “Bisogna tutelare e ascoltare anche l’ultima comparsa, il pubblico. A fine spettacolo io mi fermo a parlare con tutti, perché non esce solo l’aspetto estetico. Gli artisti non devono limitarsi a fare lo spettacolo e andare via. È un lavoro civico che devi fare”.

Artista fino in fondo, non ha mai smesso di scrivere e riflettere. L’arte? “Per me è un fatto emozionale – rispondeva – e questo mi permette di vedere, credo, con la stessa curiosità, cose che appartengono all’età classica, metti un quadro di Caravaggio o anche un’opera di Matisse, allo stesso modo.

Non sono moltissimo acculturato in storia dell’arte, ma penso che sia ciò che ti colpisce prima il cuore e poi ti spinge a ragionare. Questo per me è l’arte, e non sta necessariamente soltanto nei musei, no? A volte vedo per strada volti e cose che accadono e che involontariamente, rispetto ad altri, mi sembrano artistici. Questo è il mio sguardo”. L’occhio di un maestro che lascia un’assenza al momento incolmabile.

Re.spe.

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