Quanto e cosa è piaciuto di questo Sanremo 2024? Domanda retorica fatta da tutti a tutti. The day after La rondine di Angelina Mango la domanda sembra esser cambiata: quanto emoziona e commuove il Festival di Sanremo?
Vero è che tutto fa spettacolo, tutto fa Festival, ma scendiamo per un attimo dall’altare del cinismo perché La rondine pubblicata da papà Pino Mango nel 2002 val bene qualche lacrima. La canzone italiana o meglio le melodie dei grandi cantautori italiani hanno spesso questo effetto boomerang. Se il tempo fosse un gambero potremmo dire che Sanremo crea ma ricuce anche molti strappi con il passato. Ci ricollega al passato e spesso emoziona e convince anche.
Come guardavano i nostri nonni e i nostri padri Sanremo negli anni Sessanta, davanti al piccolo palco con i tendaggi laterali, come lo ascoltavano invece negli anni Cinquanta? Sanremo è anche questo, testimonianza della storia sociale italiana, come ci insegna Stefano Causa, professore di Storia dell’arte contemporanea al Suor Orsola Benincasa, ma anche grande conoscitore della cultura musicale italiana e internazionale.
A lui abbiamo chiesto quanto questa versione del Festival di Sanremo rappresenti la canzone italiana: “Le canzoni rispettano tutto il format sanremese – risponde Stefano Causa –; sottolineiamo però che Sanremo non è il festival della canzone italiana, ma è il festival della canzone melodica. In qualche modo le canzoni devono tutte o quasi tutte obbedire a un format tradizionale, quindi la strofa, il bridge, il ritornello”.
A proposito di identità culturale e nazionale, Sanremo ha anche il potere di ‘contenere’, di raccogliere diverse arti, diverse culture e diversi linguaggi stilistici, sia dal punto di visto comunicativo sia per quanto riguarda la formazione musicale degli artisti e se vogliamo, anche l’estetica del personaggio musicale che in qualche modo porta sul palco una propria identità. Quest’anno sul banco degli imputati Geolier che ha interpretato un brano in dialetto napoletano (non puro diremmo) e non in italiano.
Stefano Causa ha commentato guardando alla vicenda con occhio clinico: “Non è la prima volta che si sentono brani in altre lingue o che comprendano altre lingue. Quest’anno si è fatta una polemica su Geolier che io contesto perché non sono un purista. Per me il dialetto napoletano non è un organismo freddo, congelato, musealizzato”. “Il dialetto napoletano – aggiunge con un riferimento al contesto artistico e letterario – è una lingua molto viva, mi pare ovvio che un giovane napoletano di oggi non possa parlare il napoletano che si parlava, non dico ai tempi del ‘Pentamerone’ di Giambattista Basile, ma neanche ai tempi di Mastriani o di Ferdinando Russo, in definitiva neanche ai tempi di Totò… è chiaro che oggi il napoletano di Geolier è una contaminazione che ci può piacere o meno, fatto di anglismi”.
In sostanza identificare il dialetto napoletano di Geolier come ‘linguaggio’ sarebbe fuorviante, giacché il napoletano di Geolier è una deriva giovanile del dialetto che risale invece ai classici della canzone e della commedia napoletana.
“L’italiano recede sempre di più, questo è vero – dice ancora Causa – e le componenti forti della lingua napoletana che sono il latino, lo spagnolo, il francese, stanno certamente recedendo, ma neanche Massimo Troisi parlava un napoletano che oggi si sarebbe detto impeccabile. Neanche Eduardo De Filippo parlava il napoletano di Scarpetta… Di quale dialetto napoletano stiamo parlando? Potrei dire che Sanremo ha nobilitato il napoletano di Geolier o dei ragazzi di “Mare fuori”, ma non ha legittimato quello di ‘Filumena Marturano’ ad esempio”.
Sulla testimonianza dolorosa di Giovanni Allevi chiediamo a Stefano Causa quale tipo di messaggio il Festival ha il potere di veicolare: “Onore allo straordinario coraggio di un uomo che ha affrontato una malattia così grave – risponde -. Il messaggio di Allevi ha una funzione anche educativa; ci vuole coraggio per raccontare di sé e della propria malattia”.
Sull’esecuzione di Allevi il professor Causa fa però un ragionamento critico: “Personalmente non amo la musica di Allevi o di Einaudi che mi sembrano delle filiazioni molto spurie di Jarrett e mi riferisco al Keith Jarrett successivo al ‘Concerto di Colonia’. Un disco del 1975 in cui Jarrett prova a immaginare una terza via possibile che è quella di una musica ecumenica, che non è jazz, non è classica, non è leggera: è un po’ tutte le cose insieme”.
Non è un problema di ‘oscillazioni di gusto’, come avrebbe detto il maestro Dorfles, ma un problema di fruizione culturale: “Ciò che non mi piace di Allevi o di altri come Einaudi, è che non riesco ad apprezzare la musica scritta a tavolino per un pubblico che non è in grado più di ascoltare Bill Evans, Debussy, Chopin o Scrjabin, o non è più in grado di leggere Dostoevskij o Puskin per intero e ha bisogno di un Dostoevskij in pillole, in aforismi sui social”.
Ritorniamo a Sanremo: “Anche la regia messa a fuoco sui volti commossi dei musicisti non so quanto possa essere cinico. Alla fine il problema è che Sanremo è un enorme animale che ti mangia. Qualunque cosa accada a Sanremo viene ‘sanremizzata’. Viene così sanremizzato John Travolta, viene sanremizzato Giovanni Allevi, chiunque. Nessuno riesce a neutralizzare Sanremo, nessuno riesce cioé a portare Sanremo dalla propria parte. Ci era riuscito Pippo Baudo, ma Baudo era la personificazione di Sanremo”.
Un riferimento alla canzone internazionale che anche quest’anno manca del tutto. Nessun ospite internazionale a Sanremo 2024. Da qualche anno, infatti, è scomparsa la canzone straniera tra gli ospiti: è un nuovo tipo di protezionismo?
“Sì, da un lato potrebbe esser vero, d’altro canto gli ospiti come Taylor Swift o altri come Madonna, Bruce Springsteen o i Rolling Stones costerebbero tantissimo. Ma il problema non credo sia questo, credo piuttosto che il format di Sanremo sia quello della canzone melodica e penso a Gazelle, al Volo a Diodato, a Emma e così via”.
C’è un progetto artistico dietro lo scenario della manifestazione o, come cantava Edoardo Bennato qualche anno fa, “sono solo canzonette”?
“Non ho mai pensato che siano canzonette – conclude -. Anzi io penso che le canzoni in Italia specialmente in certi momenti precisi siano tra le grandi cose della cultura di questo Paese. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta le canzoni italiane sono di un livello che è secondo solo a quello inglese, non ci sono confronti sul piano europeo, la qualità espressa dalla musica in Italia ai tempi di Battisti o di Dalla o di Battiato non ha eguali.
Quello che diceva Bennato ‘sono solo canzonette’ è una cosa paradossale, perché il primo a non pensarlo era naturalmente Bennato stesso. Oggi la musica viene fruita in modo diverso rispetto a venticinque anni fa”.
Bisogna stare attenti, spiega Causa ritornando per un attimo alla questione della fruizione: “La musica non la si ascolta più per dischi che non esistono più, ma piuttosto come un sottofondo. Così come nei musei cambia il modo in cui si guardano le immagini, così come con Netfix o altro, anche Sanremo e il modo di guardare Sanremo è in definitiva, molto cambiato”.
Daniela Cardone